Il flusso dei dati macroeconomici e l’andamento dei mercati sono migliorati dopo un brutto inizio d’anno. Nei paesi avanzati, le politiche economiche e l’andamento positivo dell’occupazione appaiono perfettamente in grado di ammortizzare il calo della domanda da parte dei paesi emergenti. Tuttavia, la crescita globale rimarrà modesta, e l’impostazione delle politiche monetarie sarà più accomodante del previsto….
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A giudicare dall’andamento dei mercati, il primo trimestre 2016 ha presentato un andamento diviso nettamente in due: fino all’inizio di febbraio ha prevalso una valutazione pessimistica dell’andamento complessivo dell’economia mondiale, riflessasi in ulteriori deprezzamenti delle materie prime e in un ritorno della volatilità sui mercati azionari ai livelli che avevano caratterizzato l’estate 2015. Il violento movimento dei mercati a inizio 2016 è stato molto probabilmente accentuato da un assestamento dei portafogli dei fondi sovrani dei paesi esportatori di materie prime; inoltre, potrebbe essere stato amplificato da fattori idiosincrasici (per esempio relativi al settore bancario europeo), ma è certo che l’incertezza sull’andamento dell’economia mondiale abbia giocato un ruolo cruciale, creando un clima sfavorevole all’assorbimento della pressione di vendita da parte delle altre categorie di investitori. In effetti, da gennaio l’andamento dei dati macroeconomici ha prevalentemente deluso le attese in Europa, Stati Uniti e Cina. Da febbraio, però, si è osservato un graduale ma netto miglioramento su diversi fronti: corsi delle materie prime, indici e volatilità azionaria, flussi di capitale verso i paesi emergenti. Come le turbolenze di inizio anno erano state accompagnate da dati deludenti, così la successiva ripresa è associata a un bilancio dei dati economici americani più positivo. Tuttavia, il miglioramento non si è esteso ai dati europei e cinesi che nel corso del mese di marzo. L’ultima tornata dei PMI manifatturieri ha mostrato miglioramenti in Europa e Cina, coerenti con una risalita del PMI globale dai minimi di febbraio.
Il clima più positivo che ha caratterizzato i mercati nel mese di marzo è più in sintonia con le nostre valutazioni sullo scenario macroeconomico complessivo. La nostra tesi era, e rimane, che la crescita della domanda interna nei paesi avanzati rende quest’ultimi più resilienti di fronte al rallentamento delle esportazioni verso le economie emergenti. In effetti, è indubbio che la debolezza della domanda espressa dalle economie emergenti abbia frenato significativamente la crescita delle economie avanzate nel 2015. Fra il 2001 e il 2015, la crescita annua dell’export verso i maggiori paesi emergenti ha rappresentato in media lo 0,2% del PIL nominale negli Stati Uniti e lo 0,5% in Germania; nel quarto trimestre 2015, il contributo è diventato negativo, e pari rispettivamente a -0,4% e -0,3% del PIL nominale su base annua. Poiché la dinamica è andata peggiorando nel corso dell’anno scorso, è probabile che nel 2016 il contributo sia mediamente più sfavorevole rispetto al 2015. D’altronde, la recessione si sta rivelando più grave del previsto in Brasile, i flussi commerciali verso la Cina faticano a riprendersi e i paesi produttori di petrolio non possono contare su serie prospettive di ripresa dei prezzi. Il ritorno dell’Iran sulla scena economica non è sufficiente nell’immediato a compensare tali fattori negativi.
Tuttavia, l’andamento della domanda interna nelle economie avanzate continua a beneficiare di una combinazione favorevole di condizioni monetarie molto accomodanti, politiche fiscali neutrali o leggermente espansive e crescita occupazionale. Quest’ultima, in particolare, garantisce all’economia una certa inerzia anche di fronte a shock negativi. Lo scenario più probabile è che la crescita dei consumi e delle costruzioni consenta di ammortizzare lo shock derivante dall’assestamento delle importazioni dei paesi emergenti a nuovi e più bassi livelli, che dovrebbe completarsi nei prossimi mesi, fornendo poi la base per una futura riaccelerazione.
Peraltro, la turbolenza finanziaria di inizio 2016 ha indotto le Banche centrali in un caso a rinviare un rialzo dei tassi già atteso (Federal Reserve) e in altri casi ad annunciare nuove misure di stimolo monetario (BCE, Banca del Giappone), portando a condizioni monetarie ovunque più accomodanti del previsto. I tassi a lungo termine sono attualmente più bassi rispetto ai livelli di fine 2015 sia in Europa, sia negli Stati Uniti.
Le ultime misure espansive di politica monetaria si scontrano con un clima sempre più scettico riguardo alla loro efficacia nel produrre effetti sulla domanda aggregata. La percezione negativa è stata accentuata dal rafforzamento che hanno subito euro e yen sulla scia delle misure di allentamento della Banca del Giappone e della BCE e in generale dalla convinzione che il canale di trasmissione che passa attraverso il deprezzamento del cambio sia ormai precluso. Inoltre, le statistiche monetarie hanno ampiamente dimostrato che l’espansione della base monetaria viene in larga misura sterilizzata da una variazione compensativa dei moltiplicatori monetari, che ne preclude anche la trasmissione agli aggregati creditizi. Questo non significa che l’azione sia stata irrilevante: il taglio dei tassi a livelli negativi e gli acquisti di attività finanziarie hanno comunque effetti positivi sul servizio del debito di operatori non finanziari privati e pubblici, migliorando la solidità finanziaria e la redditività dei primi e consentendo ai secondi di adottare politiche fiscali più accomodanti. Inoltre, se gli investimenti delle imprese hanno avuto quasi ovunque un andamento deludente nel 2015, alcune componenti della domanda aggregata sensibili ai tassi di interesse stanno però rispondendo alle condizioni finanziarie favorevoli (costruzioni, consumi di beni durevoli). La dinamica degli investimenti potrebbe migliorare quest’anno nell’Eurozona, sia per le condizioni finanziarie eccezionalmente favorevoli, sia per gli incentivi fiscali adottati da alcuni paesi.
Tuttavia, è anche evidente che in questa fase la trasmissione all’economia dello stimolo monetario è ridotta. Viene da chiedersi se non sarebbe opportuno cogliere l’occasione creata da questo periodo di pressioni inflazionistiche assenti per affrontare con misure risolutive il problema dell’eccesso di debito pubblico che affligge molte economie avanzate, e che preclude l’uso anticiclico della politica fiscale. Lo spostamento permanente di quote rilevanti di debito pubblico dai bilanci degli investitori privati a quelli delle banche centrali, infatti, può consentire di realizzare una riduzione strutturale e ampia del debito pubblico (o comunque del suo servizio) senza quelle ricadute sulla stabilità finanziaria che sarebbero associate a una ristrutturazione del debito.
La percezione di una ripresa debole dipende anche dal fatto che l’attuale fase di crescita continua a poggiare soprattutto sul terziario, che nel 2015 ha fornito un contributo superiore alla media storica nell’Eurozona e negli Stati Uniti e che tipicamente è meno coperto dall’informazione statistica rispetto al manifatturiero. Negli Stati Uniti il fenomeno è più marcato che in Europa, anche per la perdita di competitività che l’industria ha subito per il rafforzamento del cambio. D’altronde, a prezzi costanti il 57% della crescita dei consumi delle famiglie americane ha riguardato i servizi – percentuale che sale a oltre il 90% a prezzi correnti – e per il 24% i beni durevoli. A parità di altri fattori, l’ulteriore spostamento della domanda finale sui servizi implica una minore attivazione di produzione totale e un minore assorbimento di importazioni. Anche questo potrebbe contribuire a spiegare la contrazione del commercio internazionale nel 2015 (-1877 miliardi di dollari nominali secondo i dati WTO). Un altro fattore importante è costituito dal minor valore dei flussi di petrolio greggio, che da solo spiega circa un quinto del calo osservato lo scorso anno.

È probabile che nei prossimi mesi si parli sempre di più di rischio politico per i paesi avanzati. Nell’Unione Europea si intrecciano la consultazione referendaria britannica, prevista il 23 giugno, e il rinnovo di molti parlamenti nazionali fra il 2016 e il 2017, fra i quali quello tedesco. In Europa, i governi che hanno gestito la crisi del debito uno dopo l’altro vengono puniti dagli elettori, che però in questa fase storica risultano troppo divisi per concentrarsi su un’alternativa di governo. Perciò, si moltiplicano i casi di ingovernabilità (Spagna) e di esecutivi o privi di maggioranza parlamentare stabile (Irlanda), o legati a maggioranze risicate (Portogallo, Grecia). L’area di instabilità potrebbe allargarsi nel 2017 alla Germania, considerando la crescente frammentazione del quadro politico tedesco. Questa deriva, che si associa a una focalizzazione dell’attività dei governi su questioni sempre più prettamente interne, renderà improbabile qualsiasi programma di riforma di ampia portata, a livello nazionale e soprattutto a livello di Unione Europea, e indebolirà la capacità di risposta dell’Unione agli shock esterni, come l’ondata migratoria. Tuttavia, la paralisi sul fronte del rinnovamento non ha necessariamente ripercussioni negative sull’andamento corrente dell’economia europea. Al contrario, un voto a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea presenta un potenziale destabilizzante per i mercati, anche se occorreranno molti anni prima che possa tradursi in pratica – se mai accadrà. Inoltre, questo è anche un anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti, e l’inatteso successo che Trump riscuote in campo repubblicano sta creando una crescente preoccupazione dentro e fuori il paese per il rischio (forse basso, ma a priori non irrilevante) che la politica estera statunitense possa tornare a essere un fattore destabilizzante, come all’epoca della seconda guerra del Golfo


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